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Da domani 14 Dicembre 2009 sarà possibile il download esclusivo di “Strangers”, anteprima di “HI”.
Stay tuned!

Lost in the supermarket, like the Clash.
Carried around in trolleys, like Thom e. Yorke before them.
Delivered from boredom by means of their imagination.
In short, the new video by København Store.
Pull your guitar down from the shelf and play it loud.
Directed by: Stefano Poletti

Persi nel supermercato come i Clash.
Dentro i carrelli come Thom Yorke.
A fare i conti con la noia, immaginando l’impossibile.
In poche parole: il nuovo video dei København Store.
La regia è di Stefano Poletti.
La Conad è quella di Colorno (per chi interessa).

Intervista di Rosa Pastena
da www.agoravox.it

I København Store sono un simpatico gruppo di aitanti giovani piacentini, uniti da una infinita e del tutto sana passione per la musica. La cosa che mi ha colpito di più è lo stato di trance in cui entrano durante le loro performance live, carichi di passione e forza che esprimono anche fisicamente, tanto da “devastare” lo stage, creando, ove possibile un rapporto molto stretto con il pubblico, salendo e scendendo dal palco. Ma la potenza espressa durante i live si rispecchia totalmente nel loro primo album “Action, please!” (42 Records), otto brani in cui si alternano i suoni più dolci e rassicuranti all’esplosione più caotica di note e accordi che riempiono dal cuore alla punta dei capelli. Il resto lo lascio raccontare a loro, che ho intervistato un paio di giorni fa.
Ecco il resoconto del mio incontro con Giulio e Nicola rispettivamente bassista e chitarrista della band, a cui dopo una serie interminabile di convenevoli e saluti sono riuscita a fare la prima domanda:

R: Un fantasioso resoconto sulla nascita della vostra band e sui suoi componenti?
G: Beh ti diremo tutta la verità…
N: No, io non lo farei.
G: Vai nico comincia tu…
N: Bah guarda… effettivamente non è nulla di che… In pratica abbiamo lavorato per 5 anni in un negozio di Københav, ne avevamo la nausea e quindi abbiamo cercato di esorcizzare la cosa chiamando cosi la nostra band. E’ stato un periodo lungo ed intenso, dove io e Giulio abbiamo imparato a conoscerci..
G: Esatto! Pensa che riuscivamo a parlarci stando zitti. Siamo arrivati a conoscerci così bene che comunicavamo con degli impulsi cerebrali…
N: …o molto più semplicemente potrebbe essere che in un viaggio di tanti anni fa…4 stupidi hanno deciso di formare questa band in un contesto, uno “store”, un pò particolare che sicuramente ci ha ispirato e a modo suo influenzato. Si, direi che la verità è proprio questa.

R: E gli altri dove li avete pescati?
N: Gli altri li abbiamo pescati pian pianino. Alcuni, come Marco (percussioni), erano amici da anni. Da sempre…e non era proprio il caso di lasciarlo giu dal palco.
G: Marco è come Bez degli Happy Mondays
N: O Mauro Repetto degl 883 decidi tu…
G: E’ importante per alcuni equilibri. All’interno della band è fondamentale..
N: Assolutamente!non potrei mai suonare senza di lui.
N: Camillo (batteria) lo abbiamo conosciuto per motivi prettamente artistici e da subito abbiamo capito che era lui la persona giusta. In sintesi è stato un processo di crescita continua.. e last but not the least, Simone (voce), l’ultimo che si è unito a noi.

R: Poniamo il caso, mia nonna vi inviti a pranzo e vi chieda: “e voi cosa suonate?”
N: sarebbe abbastanza difficile spiegare a tua nonna cosa facciamo, e cosa faremo, perche è davvero difficile capirlo anche per noi. Fondamentalmente facciamo sempre quello che non pensiamo di fare. Ognuno interpreta un pò la nostra musica a modo suo. Possiamo chiamarlo indie, post-rock … Giulio ora aggiungerà un altro genere alla velocità della luce..
G: Shoegaze, post punk…
N: L’importante è che si salti fuori dal paragone con i Giardini di Mirò, che se da un lato ovviamente non può che farci piacere, alla lunga sta un pò diventando un tormentone scomodino.
G: Come attitudine c’è molta somiglianza, a livello musicale ci sono le influenze, ma molto limitate… comunque non è la risposta che daremo a tua nonna perchè tanto non la capirebbe….ma cucinerà da paura! Quindi la conversazione si sposterebbe sul cibo… facciamo gastro-rock!

R: Io la riporterei sulla musica! Parliamo del vostro primo album, “Action please!”. Ce l’ho qui davanti. La copertina è deliziosa davvero, un ottimo oggetto ornamentale. Poi basta inserirlo nell’apparecchio giusto e…
N: Io credo ancora MOLTISSIMO nell’oggetto-disco…e ci tenevamo molto che fosse qualcosa di carino da poter comprare. Le copertine ormai, si sa, sono tutte sbagliate ma si sa pure che stiamo andando in ristampa! Questo oltre ad essere motivo d’orgoglio perchè vuol dire che 1000 copie sono andate in poco più di 6 mesi, ci dà la possibilità di poter dire che quelle copie, quelle sbagliate, rimarranno “uniche” e questo ci piace..indipendentemente da questo…non ricordo il nome dell’ artista americana che ci ha fatto dono di questo soggetto..
G: Niki Kelce
N: Però ci ha fulminato e non è escluso che si punterà anche in futuro ancora su di lei anche per superstizione a questo punto..

R: Eheh… ed estetica a parte?
N: Ah parliamo anche del “dentro”? Disco sudato. Ci abbiamo lavorato tanto, in diverse tappe, in diversi momenti. Con l’ aiuto di Giacomo Fiorenza: il produttore dei nostri sogni, nello studio dei nostri sogni, suonando strumenti vintage dei nostri sogni…ma non è stato semplice. In tutti i sensi..
G: Inizialmente non è stato semplice perchè noi e Giacomo ci siamo conosciuti registrando, quindi non si era così in confidenza. Ora non potremmo registrare con nessun altro!

R: Sì, in effetti quando ho conosciuto Giacomo e abbiamo parlato di voi mi ha dato un pò l’idea di considerarsi un padre, un fratello maggiore dei K-store.
N : Tornando al disco dentro c’è un pò il meglio dei nostri anni passati. Arricchito con le “VOCI”… ehh..le voci…

R: Le voci… come quella di Alessandro Raina (Amour Fou, Casador).
N: Esatto! -Raina? -si? -vuoi cantare? -fai sentire?mm..si direi proprio di si..vorrei cantare la “3” e noi -ok!
Non abbiamo ascoltato niente, non abbiamo voluto sentir nulla! Fidandoci assolutamente di chi sapevamo avrebbe fatto un gran lavoro. Si è infilato le cuffie ed ha iniziato. Noi ALLIBITI e… folgorati!
G: Poi diciamocelo è così bello…
N: Raina a parte il ciddi’ racchiude tutto il disordine che ci contraddistingue. Ci piace perchè è davvero incasinato e in certi momenti si “pulisce” …ma ora è già tempo di farne un altro. “Action, please!”, appunto.

R: Ecco… progetti per il futuro?
N: Stiamo già lavorando ad alcuni nuovi pezzi siamo fermamente convinti dell’importanza di non stare mai fermi, di non far passare troppo tempo anche, e soprattutto se, si hanno già nuove cose “mature”. Quindi credo che con l’anno nuovo si potrà già trovare qualcosa dei K-store in giro. Forse sarà un Ep, forse uno split, forse un disco addirittura. Ne stiamo parlando con la 42records: la nostra etichetta. In più stiamo pensando all’estero e ovviamente vogliamo continuare a macinare quante più date possibili. Niente di incredibile come vedi. E niente esperimenti di free download che se compri la spilla ti do mezzo cd, ma con il cappellino hai la pass per scaricare dal sito tal dei tali. LIVE-CD: semplice ma eterno,almeno spero…
G: Niente in contrario con chi fa queste cose, ma non è roba per noi

R: Sì anche un Dvd… dato che dal vivo siete davvero “bestiali”
G: Zero Dvd. Siamo brutti.
N: Il live ci piace proprio un sacco ..si..
G: Sì anche se non sempre troviamo la situazione ideale per ricreare quello che è il nostro vero sound. Cerchiamo di dare sempre il massimo.

R: E si vede… il risultato è davvero eccellente.
N: Grazie.
G: Penso sia normale: se senti davvero la musica che fai è impossibile non lasciarsi trasportare fisicamente.

Motore… Azione, Please!

E’ ufficiale, inaugureremo la nuova edizione del Milano Film Festival.
Il concerto si terrà venerdi 12 settembre in Piazza del Cannone (zona Parco Sempione, verde e marrone).
Tutte le info sono sul sito dell’evento

http://www.milanofilmfestival.it

Recensione a cura di Emanuele Tavagnini (nerds attack):

Roma, 24/Maggio/2008

Per non rimanere a sentire il silenzio del coprifuoco calcistico. Per non lasciarsi abbrutire. Il pallone abbrutisce. Che letteralmente significa “rendere simile a un bruto”, “avvilire”. Ecco per non avvilirsi. Per non avere il volto trasfigurato di rabbia e bestemmie. Per la curiosità di rivedere a Roma i piacentini København Store che tornano sull’onda lunga del debutto ‘Action, Please!’. Il quartetto, anche questa volta privo di cantante, è autore di un perfetto connubio di sapori shoegaze immersi in dilatazioni emozionali che guardano al paesaggistico nord Europa. La serata è davvero misto-lino-Primavera/Estate. C’è il maxischermo. C’è una conventicola tifosa che vive l’evento manifestando gioia e disappunto con stranissime smorfie facciali. Così strane che quando i København Store iniziano a suonare nessuno se ne accorge. Ci saranno venti persone ad assistere allo show degli emiliani che, da subito, mettono sul piatto quanto a noi già noto. Fragore e potenza. Grazie anche al supporto di una seconda (quasi completa) batteria che a stento riuscirà a rimanere in piedi colpita da tanto ardore. I brani sono quelli del disco. Resi ancor più aggressivi e senza il giocattoloso apporto di alcuni strumenti consueti nelle esibizioni del quartetto. Quando la partita finisce la sala comincia a riempirsi. Gli applausi scendono convinti. E la band continua a rapire senza punti di ritorno. Questo è shoegaze. Questo è suonare. Prova maiuscola.

La pattuglia nerdica è folta è agguerrita. Nessuno questa volta è “solo”. Gli headliner della serata sono cinque ragazzi a nome Envelopes composti da quattro svedesi di Malmö e da una ragazza francese (Audrey Pic) con caschetto twee pop che prova a cantare e a suonare la chitarra. Arrivano a supporto del primo album (non contando un’anonima autoproduzione) ‘Here Comes The Wind’ che mi aveva assolutamente fatto storcere la bocca. Per essere più chiari ed onesti possibili: il disco è davvero poca cosa. Cioè brutto. Sul palco è anche peggio. La giovane età non giustifica un’atmosfera da band liceale che i nostri fanno di tutto per non nascondere. Dovrebbe essere una sorta di indie pop venato di wave colta (citare i Talking Heads piuttosto che gli Os Mutantes, piuttosto che i primi B-52’s fa si che io venga maledetto in eterno) e invece quello che esce dagli ampli è solo uno stonato poppettino indie sbarazzino dal pantaloncino attillato sulla scia dei peggiori Cardigans (se mai ce ne siano stati di migliori). Davvero scarsi. Della serie dilettanti allo sbaraglio. Mi guardo attorno per vedere se trovo Gerry Scotti e il maestro Pregadio e invece incrocio solo volti increduli davanti all’ennesima invasione di musica non musica. Peccato solo che i København Store abbiano suonato così poco mentre il pallone rotolava ancora. Giù il sipario. Basta così.

Emanuele Tamagnini

da www.indie-zone.it
Le coordinate migliori da utilizzare per giungere ad “Action, Please!” dei København Store portano ad un riuscitissimo incrocio tra il post-rock più emotivo ed un’indietronica decisamente pop, quella sonorità tanto per capirci così cara ai Giardini di Mirò e che troverebbe la certa approvazione in casa Morr: il risultato è espresso in otto canzoni, equamente divise tra strumentali e non, in cui le melodie sono state incasellate in una moltitudine di tessere sonore perfettamente inserite in un raffinato e complesso mosaico che l’ottima produzione di Giacomo Fiorenza ha rifinito con mano sicura ed esperta. Colpiscono davvero nel segno i København Store, colpiscono realizzando un album dal suono potente e solido che più volte durante l’ascolto ha portato a pensare ai Broken Social Scene, più per la capacità dimostrata nel saper ottenere in uscita una notevole compattezza d’insieme piuttosto che per qualche analogia musicale.
Ulteriore segno distintivo è la scelta di affidare quattro canzoni ad altrettante voci più o meno conosciute: Alessandro Raina (già GdM, ora Amor Fou) si cimenta nella sensuale “We Came Down From The North”, Jonathan Clancy dimostra per l’ennesima volta la sua bravura in “Ants Marching On”, una delle migliori canzoni del disco con chitarre impetuose ed esplosive. Il conterraneo Simone Magnaschi, colonna portante dei disciolti Stinking Polecats, è autore e cantante nella visionaria ed eterea “Black Rebel Tricylce Club”, infine Fabio Campetti (EdWood) anima la densa “A Real Twilight”. Le strumentali si mantengono sulla stessa lunghezza d’onda, dall’iniziale “Post Core”, titolo che pare una dichiarazione d’intenti, è un omaggio alle distorsioni dei My Bloody Valentine, nella bellissima Gardens.V3 non sai se buttare nella mischia Sigur Ròs o Mùm, “The Cold Seasons” dimostra un’intensità assoluta.
Forte è a questo punto la voglia di ascoltarli dal vivo, perché senza nessuna esagerazione si può affermare che “Action, Please!” rappresenta una delle più belle sorprese nel panorama musicale di casa nostra di questi primi quattro mesi del 2008, senza se e senza ma.

Paolo ‘Folkish’ Borrone

Da http://marruca.splinder.com:

Quante volte ci è toccato dire ai nostri compleanni – Basta il pensiero –
Cortesia o falsità, poco importa.
Spesso son davvero i piccoli regali, gli inaspettati, a far la differenza e quello con cui si presenta la romana 42 Rec. è da far venir la pelle d’oca. Quasi ci scappa la lacrimuccia.
Cos’è la voce di Alessandro Raina (Amor Fou, Giardini di Mirò) quando si adagia alla perfezione all’ indietronica di We Came Down From The North  se non, citando il testo, la più pura delle emozioni?
E quella magnifica di Jonathan Clancy dei Settlefish, così persa fra le sfuriate post-rock di Ants Marching On, se non il suono di un cuore che si scioglie?
Un pacchetto semplice (8 tracce, 4 strumentali e 4 no), ben confezionato, in perfetto equilibrio fra i fervori dello shoegaze e le atmosfere sognanti stile Sigur Ros.
Le influenze che si possono cogliere sono molteplici e non ingannino, perchè questi ragazzi piacentini sanno davvero il fatto loro. Suonano e incantano con la bellezza delle cose dimenticate in qualche soffitta polverosa, in una cantina buia, in una credenza, mobiletto. Cose che riafforano all’improvviso, scalando le pareti di un ricordo, le nevi del nord, le asperità dell’anima. E ci rendono felici. Ci verrebbe meno paura d’invecchiare se si potessero sempre ricevere dischi così.
Si stappino le bottiglie, si spengano le candeline. In alto in calici.
Auguri per cento di questi regali.

Action, please! Un imperativo muto a cui con condiscendenza si risponde, cominciando a trattenere gli occhi su una pelle di sogni colati, di rodonite e citrino, di chine e pastelli soffiati dalla punta delle dita, di coralli dal colore delle gote… una pelle da far scivolare via per scoprire un nero denso come l’ossidiana, “in questo profondo silenzio e umidità, sotto le sette cappe di cielo azzurro ignoro la musica coagulata in ghiaccio improvviso, la gola che si precipita sugli occhi, l’intima onda che si annega sulle labbra” (Vicente Aleixandre). C’è un momento che galleggia tra l’assenza di suono e la musica, l’attimo silente che precede l’inizio di un ascolto che è insieme visione onirica di eclissi e aurore e fiorire di cristalli. Pochi battiti e Postcore deflagra, è un’alba che appartiene ancora alla notte, lacerata da soli di zaffiro e riverberi di vetri caleidoscopici, è una luce sospesa all’orizzonte che pulsando cresce, inonda, trabocca. In questo bagliore che cinge ed avvince l’oscurità “è venuto l’istante, il preciso momento della nudità a testa bassa, quando i velli vanno a pungere le labbra oscene che sanno. È l’istante, il momento di dire la parola che esplode, il momento in cui i vestiti si cambieranno in uccelli, le finestre in gridi, le luci in aiuto” (Vicente Aleixandre). Tra trame di puro suono erompe la voce, quella di Jonathan Clancy (Settlefish, A Classic Education), si sparge come brina che disseta ed arde finché parole di calcedonio sbocciano in un’altra gola, fluisce e dilaga allora una voce che è un tappeto di neve, un fiume di velluto, una perla di lacrima esplosa tra le labbra. We Came Down from the North è un vento che spira dalla bocca di Alessandro Raina (Giardini di Miró, Noorda, Amor fou) effondendo poesia. “Cento forze, cento scie, cento battiti, un mondo tra le mani o la fronte; un sentiero o giraffe di bianco, un oriente di perle sul labbro, tutto un sentire a ritmo azzurro cielo” (Vicente Aleixandre). La parola annega in un vortice di ametista, i sogni la sfilacciano fino a disfarla, a tramutarla in musica, nel suono di un senso che vola al di là dei sintagmi, dietro le palpebre, nel fondo della carne. Diventa marea racchiusa in una cifra, 23.03, questo suono, acqua sedotta ed attratta dalla luna in cui i pensieri annegano per imparare un respiro nuovo, per ri-conoscere la carezza del liquido amniotico in cui farsi spirale di sangue e umori d’anima. Riemergono come biglie o boccioli le parole, vetro soffiato e plasmato dalla lingua di Simone Magnaschi (Stinking Polecats), afferrato dalle dita per vederlo brillare in controluce, per giocare a scorgervi costellazioni. Black Rebel Tricycle Club fa piovere una voce di raso su quarzi ed opali. Il canto si condensa in gocce che risvegliano un giardino popolato da suoni che prendono le forme di fiori, libellule, rocce d’acquamarina, fili d’erba, giunchi, colibrì e farfalle candide. Gardens.V3 è apertura di un mondo fatato che s’impiglia tra le ciglia, che resta sotto pelle. “Sotto un singhiozzo un giardino non bagnato… Il paesaggio è sorriso. Due cinture che si amano. Gli alberi in ombra segregano voce” (Vicente Aleixandre). Le cortecce profumate stillano gemme d’ambra, una bocca le prende per tramutarle in parole, bellezza liquida da cantare. Fabio Campetti (Edwood) in A Real Twilight fa sgorgare dalla gola un filato d’organza che lambisce ed avvolge portando i sensi a perdersi in un altrove. “Un uccello di carta e una piuma rossa, e una furia di seta, e una colomba bianca. Tutto un mazzo di mirti o di ombre colorate, un marmo con battiti e un amore che s’avanza… Una musica o nardo o tele di ragno, un vaso di stanchezze o di ciprie o di madreperla… Tutto dolce e dolente, tutto di carne bianca” (Vicente Aleixandre). Le labbra si chiudono e solo una musica dipinge e così fa essere un luogo sognato, ornato di agate e giade, un tempo dagli istanti dissolti, dagli attimi eternati. The Cold Season conduce ad un vertice color cobalto da cui partecipare all’albeggiare degli astri e alle corse delle comete, un vertice in cui fermarsi ad immaginare, in cui restare a sentire.
I København Store sono quattro ragazzi, “four imaginary clerks” vestiti di vento e profumi del nord, che lasciano i nomi nei cassetti e in quegli stessi cassetti vanno riposte le sillabe che si assemblano per costruire definizioni, le lettere che scandiscono i generi, vani ed impotenti di fronte al mondo sonoro e sognante che le loro dita hanno innalzato. “Post-rock”, “Elettronica”, “Shoegaze”… sono etichette che non nominano la malia che fiorisce dopo l’azione invocata. Action, please! Ed ha inizio una proiezione che non cerca termini delimitanti. Sono suggestioni, immagini, voci, visioni oniriche, fascinazioni ed incanti a venir proiettati su di un velo traslucido di fili argentei secreti da un’anima-animale, da un’anima creatrice, tra rovi e petali. Una rete di vetro e rugiada rac-coglie ed imprigiona riflessi, sogni, respiri… di uomini uniti in un’identità fluida, aperta all’Altro. Quest’apertura è illuminata da quattro voci, quelle di altrettanti musicisti chiamati ad ornare i suoni di parole da loro stessi tessute. C’è desiderio di condivisione e confronto, da cui nasce una musica che è come un’ellisse che per esserci ha bisogno di due fuochi. È il cercarsi, l’inseguirsi e il relazionarsi di due e più fuochi quello che viene anelato, non desiderano essere sufficienti a se stessi i København Store, per questo hanno scelto di cercare costantemente altrove la propria voce. La fecondità del dialogo ha nutrito il loro pregiato lavoro. Jonathan Clancy, Alessandro Raina, Simone Magnaschi e Fabio Campetti, insieme al contributo di Fabrizio Lusitani (Flora) e dell’ottimo Giacomo Fiorenza, impreziosiscono questa musica eterea e magnetica non solo con il loro talento, ma soprattutto con la loro diversità, con la loro specifica unicità. È l’incontro, e l’apertura che lo rende possibile, uno dei tratti luminosi di questa bellezza pura che specchia la sua grazia nelle deiscenze colorate dei pastelli e dei pennini di Niki Kelce. L’illustratrice, l’artista che ha creato la pelle di questo disco, possiede tra i suoi universi di chine e guache, nati tra le pagine di una moleskine o le pieghe dell’immaginazione, un riverbero della stessa poesia che si riflette e moltiplica in bagliori tra le note dei København Store. Quella poesia che reclama il dialogo, consegna allo stupore, insegna la meraviglia e innamora. Quando infine la musica torna ad essere inghiottita dallo scrigno nero, resta nel silenzio un’eco.
“Ascoltami. Ancora, di più. Qui nel fondo divenuto una conchiglia piccolissima, mutata in un sorriso arrotolato, ancora sono capace di pronunciare il nome, di dare sangue” (Vicente Aleixandre).

Valentina di Cecco

WELCOME TO THE JINGLE


DA SUCCOACIDO.NET

København Store ovvero il gruppo venuto dal freddo (We Came Down From The North titola un brano). Ma in realtà il quartetto proviene da Piacenza, il nome è un omaggio ad un luogo che li ha ispirati, e questo Action, Please! il primo sostanzioso frutto di un viaggio ai confini del post rock.

Negli ultimi anni sono numerose le band nostrane che hanno deciso di cimentarsi con quelle sonorità (dette post rock, ma la definizione include davvero di tutto) ricercate, atmosferiche, ad alto tasso di emotività e talvolta altrettanto di cerebralità, indovinando solo a tratti una “via italiana” al post.

I København Store, qui al debutto sulla lunga distanza, raggiungono l’equilibrio fra le più disparate influenze grazie ad una scrittura dei pezzi molto essenziale, che non cede alla tentazione di inserire quanti più elementi possibili in ogni brano.

Così è semplice apprezzare tanto gli strumentali come 23.03 (che fanno pensare ad alcuni materiali della Morr) che gli episodi cantati da ospiti del giro indie, come Ants Marching On (con Jonathan Clancy dei Settlefish), We Came Down From The North (Alessandro Raina degli Amour Fou), Black Rebel Tricycle Club (Simone Magnaschi degli Stinking Polecats) e A Real Twilight (Fabio Campetti degli Edwood), dove fanno capolino rimandi shoegaze, malinconie dream pop, innesti (rischiosi, ma del tutto riusciti) fra Notwist e My Bloody Valentine.

Action, Please!, nonostante il gioco delle assonanze (effettivamente marcate, e potremmo aggiungere al pantheon i Mum o i Mogwai meno dilatati), è la dimostrazione che si può uscire dalle secche del post rock con una manciata di canzoni che trasmettono emozioni genuine, distanti dalla freddezza che a volte si imputa a band di questo tipo, persino avvolgenti in più di un’occasione.

Non sarà semplice continuare a questo livello, ma i København Store sembrano in grado di andare oltre la soglia del già sentito, dall’indietronica verso l’ignoto: le sorprese non mancheranno.